Crescita economica, le cause della lentezza dell’Italia

Crescita economica Da un ventennio l’Italia è costantemente ultima nelle previsioni della Commissione Europea sulla crescita del PIL. È logico ormai affermare che la lentezza della nostra crescita abbia caratteristiche strutturali. L’Istat ha tentato di spiegarlo chiedendo agli imprenditori cosa ci sia alla base, sottoponendo loro un ventaglio di risposte da scegliere. Tra le risposte da indicare troviamo le fonti di finanziamento, il costo del lavoro e la sua conseguente tassazione, gli oneri amministrativi e burocratici, la mancanza di personale qualificato e la difficoltà di reperirlo.

Va tenuto conto che la grande maggioranza delle realtà imprenditoriali italiane è costituita da micro e piccole imprese. Quelle con meno di 50 addetti, infatti, sono il 97,6% del totale ma occupano soltanto il 56,6% di tutti i lavoratori. Per questo le risposte dei loro titolari incidono maggiormente sul dato statistico, rispetto al volume di pil da esse generato.

La sproporzione numerica tra le innumerevoli piccole o piccolissime aziende e le pochissime grandi imprese, è quindi un elemento strutturale della nostra economia. Esso sembra andare di pari passo con la stagnazione della crescita economica, essendo entrambi gli elementi molto più accentuati rispetto agli altri paesi.

Da tali elementi dipende anche la stentata crescita occupazionale dell’Italia. Negli ultimi anni è stata così scarsa da lasciarci agli ultimi posti in Europa, quanto a tasso d’occupazione. Lo si è rilevato anche quando i dati indicavano un suo leggero incremento. Eppure non siamo gli ultimi per quanto riguarda la ricchezza complessiva prodotta. Diamo allora un’occhiata alle risposte fornite dagli imprenditori.

I motivi che frenano la crescita economica secondo gli imprenditori

Fonte foto 1 e 2: LInkiesta

Sono soprattutto i piccoli imprenditori a dichiarare che il maggiore ostacolo alla loro competitività sarebbe costituito dagli oneri amministrativi e burocratici. Con tale dizione si intende anche il costo del lavoro. Secondo le aziende – ma soprattutto per le piccole – la risoluzione di questi problemi sarebbe più impellente che non la mancanza di risorse finanziarie. Per le imprese medio-grandi, invece, gli ostacoli derivanti dalla burocrazia, dalla pubblica amministrazione e dal costo del lavoro sembrano venire dopo.

Ora, è vero che le piccole imprese hanno caratteristiche e problemi molto diversi rispetto a quelle con centinaia di dipendenti. Tuttavia, la scarsità di risorse finanziarie, anche se non risulta dalle loro risposte, dovrebbe riguardare molto di più la loro realtà. Non potendo fruire di economie di scala, infatti, le piccole imprese hanno una bassa produttività. E’ questo fattore che rende per loro più gravoso il costo del lavoro e, spesso, le fa uscire dal mercato. Da non trascurare, per tutte le tipologie, la mancanza di personale qualificato e la difficoltà di reperirlo, per il basso livello di qualificazione professionale esistente in Italia.

Il problema del costo del lavoro troppo elevato è comunque un oggettivo ostacolo alla crescita per circa metà delle imprese. Non tanto per la parte che entra netta in tasca al lavoratore, quanto per gli oneri fiscali e riflessi. Ciò vale sia per le piccole aziende che per quelle che occupano più lavoratori. Solo per le realtà sopra i 100 addetti le risposte indicano come più scottante il problema del reperimento di personale con le competenze tecniche o trasversali necessarie. Ad esso è però collegata l’incertezza sulla sostenibilità dei costi per l’assunzione di nuove risorse.

Con l’autofinanziamento soltanto non si va da nessuna parte

Prendiamo allora in considerazione le fonti di finanziamento. L’accesso al credito bancario non è quella prevalente, anche se ciò può dipendere dalle eccessive garanzie che richiedono le banche. A prevalere, infatti, è l’autofinanziamento, soprattutto da parte delle micro imprese, con meno di 10 addetti.

L’utilizzo del capitale sociale (equity) a scopo investimento è perseguito soprattutto dai grandi. Meno del 10% delle piccole imprese vi fa ricorso. Si preferisce ancora tesaurizzare il capitale negli investimenti immobiliari, nonostante che la recente crisi abbia dimostrato che anch’essi siano aleatori.

Le forme più moderne di reperimento di capitali rimangono nel nostro Paese quasi sconosciute. All’estero riescono ad agevolare la nascita e la crescita di molte aziende, soprattutto nel mondo delle startup. Non hanno avuto successo i minibond (obbligazioni emesse da aziende non quotate ma con determinati requisiti dimensionali ed economici). Pur essendo nati proprio per le PMI. Praticamente nessuna di loro li ha adottati e solo poco più dell’1% delle grandi imprese li hanno sottoscritti.

Ugualmente gli aumenti di capitale con titoli IPO-Offerta iniziale al pubblico da parte di società che intendono quotarsi per la prima volta in borsa. Così come l’apporto di capitale di rischio (venture capital) per finanziare l’avvio o la crescita di un’attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Assolutamente assente ogni forma di crowdfunding (finanziamento collettivo di qualsiasi genere).

Gli investimenti pubblici non sono più in grado di sostenere la crescita economica

La tanto decantata “azienda Italia” è quindi rimasta indietro soprattutto dal punto di vista del più importante fattore di crescita, quello del reperimento di risorse finanziarie. Le indagini ci danno dunque il ritratto di un paese ancorato a risolvere problemi immutati, ereditati dal tempo in cui lo Stato sembrava risolvere tutto, almeno in apparenza.

L’economia italiana, per almeno un venticinquennio (1969-1992), infatti, è stata sostenuta quasi esclusivamente dagli investimenti pubblici. Quando, per la crescita abnorme del debito pubblico, ciò è stato possibile solo in misura molto ridotta, la crescita del Pil italiano non ha mai superato l’1-1,5% annuo per giungere alla stagnazione attuale.

Un’economia che cresce esclusivamente solo con gli investimenti pubblici è un’economia carente sotto il profilo imprenditoriale. Ma, forse, agli italiani va bene così. Lo dimostrano le resistenze a ogni riforma e le richieste sempre più pressanti di destinare risorse a forme assistenzialistiche. A discapito della parte investimento del bilancio dello Stato.

Fonte immagine di copertina: Cor.Sera

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