Cesare Beccaria e la pubblica felicità

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La «pubblica felicità» Dei delitti e delle pene

Nella prima pagina di Dei delitti e delle pene Cesare Beccaria parla di «pubblica felicità». Un’espressione importante per valore e modernità, poiché in due parole riassume il ribaltamento radicale del concetto di Stato operato dagli Illuministi nel XVIII secolo. Nel Seicento lo Stato si identificava per lo più con la Corte, che a sua volta ruotava intorno a un monarca assoluto con poteri di matrice divina (si pensi alla celebre frase attribuita a Luigi XIV L’etat c’est moi). All’inizio del Settecento negli ambienti culturali di alcuni paesi europei — in particolare la Francia — lo Stato comincia a essere concepito come una collettività volta a realizzare la propria felicità. Una felicità da conseguire mediante leggi che tutelino la libertà del singolo e al contempo la «volontà generale».  

Siamo negli anni dell’Encyclopédie diretta e organizzata da Diderot e della dottrina contrattualistica di Rousseau. Ai tempi della pubblicazione di Lo spirito delle leggi di Montesquieu, che difende la libertà e la separazione del potere giudiziario dagli altri poteri al fine di rendere le leggi uguali per tutti: per i cittadini come per i governanti. È questo il clima culturale che favorisce la fioritura degli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità perseguiti dalla Rivoluzione francese. Questi i presupposti che stanno alla base dell’opera di  Cesare Beccaria, che nel 1766 scrisse all’abate Morellet: «Io devo tutto ai libri francesi». 

La fama, il dissenso e il successo

La pubblicazione di Dei delitti e delle pene e il suo immediato successo valgono a Beccaria la fama di essere uno dei fondatori della scienza della legislazione e il precursore «di tutti gli indirizzi moderni che pongono al centro del proprio interesse i problemi di politica criminale». Il saggio esce per la prima volta nel luglio 1764, in forma anonima, presso la stamperia Coltellini di Livorno. Per essere un prodotto dell’illuminismo italiano — più riformista e molto meno politico di quello francese — ha quasi il sapore della rivoluzione. 

È un libro che fa discutere. Falchinei lo ritiene il prodotto di un «frenetico impostore», «nemico della religione e del cristianesimo». Nel 1766 la Chiesa lo include nell’Indice dei libri proibiti. Tuttavia Dei delitti e delle pene raccoglie anche grandi consensi. Primo fra tutti quello dei Verri, che con Beccaria furono i responsabili della celebre rivista letteraria e culturale «Il Caffè». Si pensi che nel 1765 Pietro Verri scrisse addirittura un’opera di replica all’attacco di Falchinei.

Una nuova forma di giustizia

Come si evince dal titolo, Dei delitti e delle pene si concentra sul tema della giustizia. Una giustizia fatta anche di diritti, non solo di doveri. Beccaria scrive guidato da una concezione contrattualistica — tipica degli illuministi — per cui le leggi di uno stato costituiscono un patto tra uomini liberi. Chi infrange il patto dev’essere punito per il bene di tutti, ma la punizione dev’essere commisurata al reato. In questo modo oltre a scoraggiare altri cittadini a attuare la stessa violazione, la pena avrà anche la funzione di rieducare colui che l’ha ricevuta. Va da sé che nella visione beccariana la tortura e la pena di morte non trovano spazio. Anzi, per Beccaria tali misure sono inutili e violano il contratto sociale su cui regge la collettività.

Nel capitolo XII di Dei delitti e delle pene afferma: «È evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. […] Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? […] Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo». Pensieri da illuminato che finirono davvero per incidere sulla realtà del tempo. Si pensi all’abolizione della pena di morte e della tortura nel Granducato di Toscana, ordinata da Pietro Leopoldo nel 1786. Un grande esempio di civiltà, ispirato da un’opera che nel conseguimento di una civiltà più giusta e felice possibile trova il suo obiettivo e la sua realizzazione.

Foto di Edward Lich da Pixabay

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