<< Cari papà e mamma, vado in Africa >>

Chakama è un villaggio dell’entroterra del Kenya sito a circa 60 chilometri dalla città costiera di Malindi, nota meta turistica. Un gruppo di persone armate di kalashnikov lo scorso 21 novembre è penetrato nel villaggio, sparando raffiche per intimidire i presenti e ferendo cinque persone, tra loro anche due bambini, con l’unico obiettivo di rapire Silvia Romano, giovane italiana di 23 anni, cooperante della Onlus marchigiana Africa Milele. Laureata in mediazione linguistica ed istruttrice di ginnastica artistica, il suo sogno era lavorare per la promozione umana nei paesi più poveri.

Non è ancora certo il movente del rapimento. Le indagini della polizia sono maggiormente indirizzate verso la criminalità comune, tendendo ad escludere la matrice terroristica, anche se di recente i fondamentalisti islamici sembrano godere di diversi appoggi locali. Se i fautori del rapimento fossero alcuni esponenti dell’etnia Oromo, pastori nomadi che si muovono tra Kenya ed Etiopia, questo farebbe pensare ad un rapimento a scopo estorsivo: predoni che hanno intenzione di cedere poi l’ostaggio a bande più potenti, tra queste anche gli Al-Shabaab della Somalia (gruppo terroristico jihadista sunnita di matrice islamista). I tre presunti rapitori sono stati identificati e gli inquirenti sono ora sulle loro tracce. La notizia non è stata confermata ufficialmente, ma sembra che al momento del rapimento, Silvia fosse l’unica volontaria a Chakama, in attesa dell’arrivo dall’Italia di altre persone, dopo che due suoi compagni avevano lasciato il paese per problemi di salute. Secondo alcune opinioni, a Chakama i volontari non vivono in una struttura protetta e sorvegliata, come invece avviene altrove o comunque dovrebbe essere previsto per cooperanti e volontari.

Non è ancora stata data notizia della richiesta di un riscatto per la liberazione della ragazza, ma pareri e opinioni al riguardo spopolano già nei social. Non meritano troppa attenzione i vuoti commenti di coloro che non solo non condividono ma attaccano la scelta di Silvia, rifiutando l’idea di dover cedere al riscatto poiché “se ne doveva stare a casa a badare agli italiani poveri”. Neppure è necessario entrare nel merito delle spese del e per il nostro Stato. Non tanto è per il denaro che il governo italiano dovrebbe raggranellare, il dissenso intorno al pagamento del riscatto è legato  piuttosto al rischio di alimentare l’uguaglianza “rapimento = riscatto = altri rapimenti”. Ciò detto, si fa fatica a credere che il recupero di un connazionale cooperante, volontario trovi l’ostacolo dell’opinione comune, dovendo invece prevalere il senso unanime del doveroso ricorso a qualsiasi mezzo necessario, qualora altri strumenti (servizi segreti, forze speciali) non fossero sufficienti.

Perché di fronte a queste “sfortunate realtà”, non va più bene neanche “aiutarli a casa loro”.  Cooperazione vuol dire anche e soprattutto preparare il contesto locale nel quale si va ad operare, promuovendo accoglienza, consenso e protezione. Obiettivo primario ed ultimo della cooperazione è quello di rendersi superflui all’interno della comunità dei villaggi in cui si opera, lasciando l’attività nelle mani degli abitanti del luogo. Aiutarli a casa loro vuol dire questo, per farlo però è necessario garantire una protezione per chi vi lavora. Escogitare strategie di difesa e di tutela per i cooperanti che intervengono in contesti sociali, politici ed economici a rischio, dovrebbe essere pertanto tra i primi punti dell’agenda del governo.

Ci si stringe attorno alla morte di un giovane pilota come Marco Simoncelli, dolcemente ricordato come “l’angelo delle due ruote”, senza forse interrogarsi troppo sul rischio costante che una passione come questa comporta. Si sproloquia tuttavia con sconsiderati giudizi come “se l’è andata a cercare” nei confronti di una volontaria che sta amaramente pagando le conseguenze di una buona fede verso il mondo sulla propria giovane pelle. E checché se ne dica, ce ne sono tanti di giovani non indifferenti al mondo, alle calamità e alle ingiustizie. Tra questi vi è Silvia. Con l’unica differenza di essere stata più sfortunata rispetto ad altri, probabilmente anche meno tutelata. Ma con una passione, non troppo distante da quella del Sic. Perché se chi sfreccia sulle due ruote regalando emozioni viene considerato un eroe, non dovrebbe essere da meno chi silenziosamente opera in villaggi sperduti dell’Africa, regalando emozioni e piccoli cambiamenti, tuttavia meno visibili.  

A chiederle di restare, di non partire o di guardare ai poveri dell’Italia, avranno probabilmente già pensato i suoi familiari, che per un attimo avranno forse fantasticato sulla possibilità di portare l’Africa da lei  pur di non vederla partire per il villaggio di Chakama.

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