Breve itinerario di epistole e di affetti

“Cara Raffaella, ho ricevuto ieri la tua lettera. Ciò dovrebbe essere sufficiente, se davvero mi conosci, più di mille parole. È bastato saggiarne la consistenza, aprirne i bordi, sfiorare le linee dei segni, immaginarne il senso per segnarmi. Repentini tuffi al cuore, evoluzioni dell’animo, acrobazie dei sensi”. Inizia così uno dei miei più cari ricordi epistolari. Una lettera di trent’anni fa, scritta dalla mano di un giovane allievo ufficiale, un incantevole amico di allora e di oggi, bravissimo avvocato e raffinato esteta della pagina scritta.

Ho voluto esordire con queste parole non solo per un giusto tributo alla fortuna che una donna ha quando è destinataria di simili sentimenti, di simile eleganza e di stile, ma per ragionare su quanto oggi, nelle frettolose comunicazioni via e-mail, o, peggio, via sms, whatsapp e messenger, ci perdiamo delle emozioni di cui una lettera è foriera, già solo nell’attesa che genera, gustosa attesa, nella calligrafia, che dal suo etimo, kalos, ricava il senso della bellezza, e nella consapevolezza, poi, di leggere le parole di una persona che si è fermata un poco a riflettere, a pensare, a dedicare del tempo al suo assente interlocutore, a creare un contatto con quella pagina, un tramite ideale con la mano del destinatario.

Mi sovvengono le donnine di Vermeer in trepidante attesa di un foglio di carta che porti loro notizie lontane di animi sempre presenti; fanciulle timide, ritratte in un raggio di luce, assorte nel leggere e rileggere parole evocatrici di sensazioni desiderate. Così è anche l’elegante giovinetta dipinta da Raimundo de Madrazo y Garreta ne La Lettera d’Amore: delicatamente appoggiata sullo schienale della sua poltrona, sembra sognare guardando la lettera che stringe tra le mani, una lettera ancora chiusa dal sigillo in ceralacca. Il solo riceverla, dunque, il solo toccarla, come diceva il mio amico che mi scriveva nei suoi giorni d’Accademia, è fonte d’emozione.

Scrivere una lettera, in qualche modo, significa aprire la propria anima, commuovendo a distanza, donando il senso della persistenza di sé oltre ogni limite che lo spazio impone: “Comprendendo subito, dal titolo, che era tua, ho incominciato a leggerla con tanta più passione quanto più grande è l’affetto che mi stringe al suo autore; e l’ho fatto per potermi consolare, ora che ti ho perduto, almeno con le tue parole, come se fossero l’immagine di te” scrive Eloisa ad Abelardo, in uno dei più noti epistolari medievali.

Quel foglio, quella pergamena delicata dai colori tenui, quella carta fine, lieve come i pensieri che è destinata a raccogliere, si rende tramite d’un dono che non può essere trasmesso se non con le parole.

“Sempre e tutto tuo” scriveva lord Byron a conclusione di una breve lettera d’amore diretta alla contessa Teresa Guiccioli. La pienezza di questa frase è sorprendente. Non ammette tentennamenti, non apre il cuore a timori. Poco importa l’evanescenza di quei sentimenti: possono durare anche un solo giorno, ma in quel giorno l’amore è per sempre e quella frase ne è testimone, poiché esprime eternità e completezza, le uniche caratteristiche che si richiedano all’Amore.

“Sei il profumo dei miei sogni” mi scrisse un altro mio caro amico, ancora oggi mio confidente, mio meraviglioso compagno di cinema e di spensieratezza.

Lettere, biglietti e cartoline rimangono, accedono direttamente al bagaglio dei ricordi. Possono essere letti, riletti, conservati, rievocati e portano con loro una parte dell’altro, attraverso il tocco delle mani, la calligrafia, o, magari, una lacrima che ha macchiato il foglio, attraverso il profumo. Possono accompagnarci chiusi in un libro, a segnare pagine con la loro intima presenza, con un’essenza densa di parole dirette al cuore.

Persino nell’anonimato, un foglio scritto a mano ha un che di romantico, un volersi celare senza farlo davvero. Ci fu un tempo in cui mi si attribuiva una vaga somiglianza con i gatti, forse per gli occhi, forse per la mia riservatezza. Ebbene, un giorno mi vennero consegnate cento rose rosse con un biglietto non firmato: “Accidenti ai gatti”, c’era scritto. Non seppi mai chi mi fece quel dono, ma il biglietto lo conservo ancora.

Anche nel disappunto le lettere assumono un valore. A volte, sotto l’influsso dell’impulso, scriviamo parole che seguono le involuzioni di uno stato d’animo alterato di cui potremmo pentirci: “Felice di non averLe mandato la prima lettera, che era un po’ dura come il mio stato d’animo di ieri. Ora […] nella mia anima si è fatta luce e così dovrebbe avvenire anche nella Sua” scrive Sabina Spielrein a Jung nel corso della loro lunga, tormentata, segreta passione. Non credo che il suo sollievo per non aver inviato la prima lettera risiedesse nel timore della reazione, comunque scongiurabile con un chiarimento, bensì nell’idea che, anche dopo anni, l’acrimonia, la durezza della prima missiva sarebbero rimaste vive, leggibili, imperiture dimostrazioni di un momento di sfiducia, di sconforto, di un torto, di uno schiaffo vergato con le parole dure di un cuore disingannato. La chiamo immortalità epistolare, io: le lettere esistono anche quando ce ne dimentichiamo, quando le ritroviamo in fondo a qualche cassetto e le rileggiamo, come ho fatto io in questo piovoso giorno d’agosto, fronteggiando il mio io di ieri ed i sentimenti che mi hanno condotta ad essere ciò che oggi sono.

Le lettere sono un ponte sul fiume del distacco che, a volte, capita di attraversare; le parole scritte sono capaci di dire, senza imbarazzo, senza l’oppressione d’una puntuale spiegazione, semplicemente: eccomi, son tornato, sono sempre tuo amico. “Ed eccomi attorniato dai ricordi a scriverti un’epistola che spero leggerai con piacere. Carissima amica mia, il tempo passa incessante, ma ritengo che i nostri animi siano sempre fondamentalmente gli stessi … Nell’infinito desiderio di riabbracciarti presto, mi confermo, come sempre, Tuo” mi scrisse un giorno un altro mio caro amico dei tempi dell’università, come me “giurista per caso” e ricercato cultore di versi e prose, che è volato in cielo troppo presto. Sicuro che i miei lineamenti celassero vite antiche, che la mia anima giungesse da un altro dove e che altri cavalieri mi avessero amata, mi scrisse questa poesia, vergandola frettolosamente sul mio quaderno di diritto romano, durante la lezione: “Esistono momenti profondi, nei quali siamo consci di un’alba segreta che sorge dalla verde oscurità. Il tuo volto viene da altri mondi: per esso qualcuno è morto, benché io non sappia dove; di esso qualcuno ha cantato, benché io non sappia quando”.

Ho i brividi ogni volta che rileggo tutte le lettere e le poesie che ho avuto la fortuna di ricevere. Splendide amicizie, amori vissuti ed amori mai sbocciati, affetti eterni, profondi. Se avessi vissuto oggi tutto ciò, non avrei che una manciata di emoticon memorizzati sul telefono.

Scrivere una lettera, un biglietto d’amore non è solo scrivere, ma aprire uno spiraglio di sé. “Colle tue lettere” scrive Goethe alla Brentano, sua eterna innamorata “hai riversato sopra di me una vera cornucopia, o cara Bettina”.

L’universo dei sentimenti conosce anche la notte, però. E le parole che compongono una lettera ne seguono il presagio oscuro, facendosi tramite della fine di una storia d’amore. Tuttavia, la lettera d’addio, quand’anche aspra e forte, non rappresenta mai il vero addio, bensì un’immagine romantica di esso; si fa garante di un disagio ed, al contempo, di un rimorso e, soprattutto, di una certezza, quella dell’imperituro ricordo: “Io e te ci siamo amati come non era possibile amarsi di più, come nessuno potrà mai amare di più”, scrive la Aleramo a Dino Campana, in uno dei tanti addii della loro turbolenta relazione. Le lettere d’addio si trasformano nell’icona di un lutto, dunque, di un plateale e pur intimo strappo sul cuore; esprimono un latente pentimento, una persistenza che il tempo non è in grado di cancellare. “Addio creatura mia” scrive de Musset all’amata George Sand. Tenerezza e drammaticità. Quando io ed il mio primo fidanzato, nell’adolescenza, ci lasciammo, lui mi scrisse: “Forse il giorno in cui noi due sorrideremo tranquilli insieme, in riva al mare, baciati da un sole primaverile, non verrà più, ma io lo sognerò per tutti gli anni che mi darà Cristo”. Non credo che lo sogni ancora, ma la vita ci vede tuttora amici, legati da un affetto immenso. Le lettere d’addio, no, non sono quasi mai un addio. Sono imperituri momenti d’amore persino quando l’amore svanisce.

Ebbene, vogliamo paragonare il peso di queste parole, della carezza delicata di un’espressione che in sé rivela quanto l’amore più che l’amato sia una creatura dell’altro, ad un messaggio telefonico? Vogliamo paragonare una cartolina alla notizia di un viaggio inviata ad un gruppo di persone via whatsapp? Nella cartolina, accanto alle parole, è contenuto il tempo dedicato a comprarla, ad affrancarla, a spedirla. Perché non si mandano più cartoline? Io ancora ne mando a chi le gradisce e ne ricevo, sebbene sempre più raramente. Il fatto è che ci siamo tutti convertiti, me compresa, alla messaggistica telefonica, alla condivisione sui social. Persino gli amici che mi scrivevano in passato, gli autori dei brani epistolari che ho citato, usano il computer ed il telefono, oggi: un breve squillo ti avvisa che hai ricevuto un messaggio. Altro che attesa trepidante del servizio postale! A quel messaggio puoi rispondere in tempo reale, ingaggiando una “conversazione”. Frasi lapidarie, emoticon, abbreviazioni … La cosa buffa è che siamo così abituati a questa forma di comunicazione da trovarvi persino connotazioni simpatiche, o romantiche; per un emoticon sognante può scatenarsi il batticuore; le emozioni galoppano quando ci mandano un cuore e poco importa se quello stesso cuore arriva ad altre cento persone quasi in contemporanea. Abbiamo “like” e smiles  così dentro le nostre abitudini da sentirne la mancanza quando ci accade di  attivare ordinari schemi di dialogo, scritto o parlato. Prima o poi arriveremo a portarci in tasca palette raffiguranti pollici all’insù e faccine buffe, in modo da alzarle mentre parliamo, come fossimo giudici di una gara olimpica, sostituendole ai tratti prosodici del discorso, alla mimica facciale.

Questo fenomeno, poi, raggiunge l’apice con i più giovani, che di carta e penna non hanno mai sentito parlare. Usualmente, affastellano in una stessa frase  lettere, numeri, immagini e parole straniere, dando vita ad un’estrema sintesi decisamente meno chiara del geroglifico.

I nuovi sistemi comunicativi, del resto, rappresentano perfettamente la ricostruzione identitaria di chi, in giovane età, oscilla tra la tradizione espressiva e l’accattivante novità dei segni convenzionali, pur lontani anni luce dalla affascinante complessità alfanumerica dei sistemi crittografici del passato. Il fonosimbolismo gergale dei messaggi telefonici contiene elementi pittografici   -smiles, cuori, fumetti-,   singole lettere che dalla loro pronuncia ricavano la vocale che manca, numeri che debbono essere letti come parole o parte di esse, la X che sostituisce il per, la K il ch e la doppia NN che contiene, invisibile, la vocale idonea a pronunciare una negazione.

Il plurilinguismo dei messaggi telefonici, dunque, non offre spazio alcuno ad eleganza stilistica. Altro che languide e romantiche lettere d’amore, dove trionfa l’iperbole! Un innamorato, oggi, al massimo scrive: “Aminfi 6 la +. Sono strac8. Tat+. Ba&Ab” (Amore infinito sei la migliore. Sono stracotto. Ti amo tantissimo. Baci e abbracci). Commovente poesia.

La verità è che, ormai, un uomo che sappia corteggiarti mandando fiori veri e non virtuali; che ti inviti ad una mostra d’arte invece di inviarti un pps sul Louvre; che ti porti in un luogo romantico invece di inviartene un’immagine telefonica; che sappia parlare guardandoti negli occhi; che scriva belle lettere d’amore, è una rarità. Ma che posso dirvi? Io continuerò ad attendere lettere, a scriverne, a scegliere cartoline nei luoghi di vacanza, ad emozionarmi per un gesto romantico. Forse sono fatta male, ma sono fatta così.

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