7 aprile 1994, Rwanda. Il massacro di un’eterna primavera

genocidio Rwanda

Nel continente nero (paraponzi ponzi pò)
Alle falde del Kilimangiaro (paraponzi ponzi pò)
Ci sta un popolo di negri che ha inventato tanti balli
Il più famoso è l’hully-gully, hully-gully, hully-gu

Vi siete mai chiesti chi fossero quegli uomini che Edoardo Vianello descriveva come tanto alti da poter guardare negli occhi delle giraffe e parlare negli orecchi degli elefanti?

A colpi di machete

Siamo in Rwanda (Ruanda), “paese delle mille colline e dell’eterna primavera”, nella regione dei Grandi Laghi, parte meridionale della Rift Valley, Africa orientale; un paese grande quasi quanto la Sicilia, potrebbe passare inosservato consultando un mappamondo. Considerata una delle aree più ricche del mondo, un vero e proprio scrigno, con il suo 30% del cobalto mondiale, una quantità analoga di rame, diamanti, oro, petrolio e tanti minerali preziosi. Prima di diventare teatro di uno dei massacri più sconvolgenti del XX secolo, il Rwanda aveva la più alta densità demografica al mondo dopo il Bangladesh, contando sette milioni di abitanti.

A fine luglio 1994, dopo soli tre mesi di massacri, contava quasi un milione di vittime, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate e lesionate. Un equilibrio sociale stravolto da un genocidio commesso manualmente ed individualmente, le cui vittime furono principalmente la minoranza Tutsi uccisa dalla maggioranza Hutu, a colpi di machete.

Una brutta storia che si ripete

Dopo lo sterminio di un numero compreso tra i 5 e i 6 milioni di ebrei, vittime dell’Olocausto, il 9 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottava la Convenzione per la prevenzione e la responsabilità del delitto di genocidio, entrata in vigore il 12 gennaio 1951.

A distanza di quasi cinquant’anni, tra il 7 aprile e il 14 luglio 1994, in Rwanda si commetteva un crimine per cui successivamente, nella storia della giustizia penale internazionale, un sindaco rwandese veniva ricordato come la prima persona giudicata responsabile e condannata per genocidio ai sensi della Convenzione del 1948. La domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: come può accadere che un intero paese si convinca che la soluzione a tutti i propri problemi sia eliminare dalla faccia della terra parte della stessa popolazione?

Hutu e Tutsi

La popolazione rwandese era storicamente divisa in tre gruppi: l’85 per cento era Hutu, il 14 per cento Tutsi e l’1 per cento Twa. Mentre gli Hutu erano per lo più contadini, i Tutsi per tradizione in passato si erano dedicati all’allevamento. Non si è mai smesso di ripetere, a giusto titolo, che i Tutsi e gli Hutu, dal momento che parlano la stessa lingua, il kinyarwanda, che condividono la stessa cultura, la stessa religione, gli stessi costumi, lo stesso Dio Imaana, non sono due diverse etnie. Le differenze tra i tratti somatici dei gruppi erano inizialmente molto evidenti: i tutsi alti e longilinei, gli hutu bassi e robusti, i twa pigmei, dalla statura particolarmente bassa,  pelle scura e naso schiacciato. Da tempo, tuttavia, per il verificarsi dei sempre più frequenti matrimoni misti, risulta difficilissimo distinguere un tutsi da un hutu.

Prima di arrivare agli atti, la violenza è nelle parole

La presenza di Hutu, Tutsi e Twa non avrebbe portato ad un odio razziale se quella pacifica ed ancestrale divisione non fosse stata strumentalizzata dai colonizzatori bianchi. Quella che prima poteva definirsi coscienza etnicafu infatti strumentalizzata ed esasperata dall’uomo bianco, che gettò le basi per la costruzione di un’identità razziale prima sconosciuta tra il popolo ruandese. Perché il massacro procede innanzitutto da un’operazione mentale: un modo di vedere un “Altro”, di stigmatizzarlo, di sminuirlo, di annientarlo, prima di ucciderlo effettivamente.

Nonostante l’organizzazione rudimentale e le elementari attrezzature militari, la pulizia etnica ruandese fu, in proporzione, superiore a quella dell’Olocausto ebraico per la sua brutalità surreale: mai prima di allora infatti erano stati uccisi tanti esseri umani in così poco tempo. Armi primitive che hanno letteralmente maciullato quasi un milione di persone in soli cento giorni, donne e bambini le principali vittime. Tre mesi di spietata, efferata ed efficiente mattanza, a cielo aperto, “Mentre il mondo (re)stava a guardare”, come racconta il magistrato Silviana Arbia nel suo libro.

“Questi barbari … Che si ammazzino pure tra di loro”

Ciò che racconta questo genocidio va oltre l’immaginario collettivo. Gli assassini non furono solo quegli Hutu che presero in mano un machete per uccidere il vicino di casa, ma furono tutti coloro i quali direttamente ed indirettamente contribuirono agli indicibili massacri: la comunità internazionale, la negligenza occidentale, il tardivo intervento umanitario, la difficoltà di riconoscere un genocidio in corso e una serie di debolezze insite nelle operazioni di pace gestite dalle Nazioni Unite. Tutti questi fattori, insieme, hanno contribuito a segnare una delle pagine più nere della storia umana.

Persino le parole diventano insensate. Non parlarne, tuttavia, sarebbe come rassegnarsi con il silenzio agli assassini e renderli una seconda volta vincitori. E’ importante sapere quindi che il genocidio Ruandese non fu uno screzio etnico o tribale, bensì un genocidio politico, un massacro indotto, preparato accuratamente dal governo, coadiuvato da governi occidentali e mass media, allietato da canzoncine incitanti all’odio anti-tutsi. Un genocidio ben orchestrato. “Solo” la storia di un genocidio a cui il mondo ha dedicato poche pagine sui giornali.

Qui ci scambiamo l’amore profondo dandoci i baci più alti del mondo 
siamo i Watussi 
Noi siamo quelli che dell’equatore vediamo per primi la luce del sole 
siamo i Watussi!

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