19 luglio 1943: 75 anni fa, il bombardamento di San Lorenzo

19 luglio 1943, ore 11.00 di mattina. Mio padre, studente di medicina, è sergente di sanità in servizio militare di leva all’ Ospedale del Celio. Era stato arruolato nell’agosto del 1942 e inviato al Centro addestramento reclute di Villa Opicina presso Trieste, in zona di guerra, ove la resistenza dei partigiani sloveni stava già facendo vittime tra i nostri soldati. Essendo studente universitario, alla fine del corso era stato destinato a Roma, dove studiava.

All’improvviso, dalla caserma si sentono dei terribili tuoni in lontananza e si notano delle spaventose colonne di fumo sorgere dal suolo, oltre la Stazione Termini. Era iniziato il bombardamento aereo di Roma. Mio padre e un suo collega sottufficiale, senza nemmeno richiedere l’autorizzazione dei superiori, si recano di corsa sul posto, per recare aiuto alle vittime.

Infilato il tunnel di Santa Bibbiana, giungono al quartiere San Lorenzo proprio al momento della seconda ondata del bombardamento. Mio padre, investito dalle schegge di una bomba in piena fronte perde i sensi; quando li riprende si ritrova semisepolto in una buca di terra. Ha una grossa ferita lacero contusa alla regione frontale vicino all’occhio destro e la divisa tutta bucata dalle schegge dello scoppio. Solo più tardi si renderà conto di essere ferito anche a uno stinco, vicino al tendine.

719 morti, 1659 feriti

Nel disordine generale, un alto ufficiale dei carabinieri provvede allo “smistamento” dei feriti: invia mio padre in un rifugio e fa caricare il suo commilitone, anch’egli ferito, in un taxi, per farlo ricoverare. Era il comandante generale dei carabinieri Azolino Hazon che, nel prosieguo del bombardamento, perderà la vita.

Nel rifugio, durante le successive due ondate, papà è bendato con un asciugamano attorno alla fronte, a mo’ di turbante. Uscito dal rifugio al termine dell’incursione, si rende conto del disastro accaduto. L’intero quartiere è in rovina e in alcuni punti ci sono ancora le fiamme. Alcuni sopravvissuti chiamano a gran voce i parenti o tentano di trarli fuori dalle rovine. In molti casi, invano, perché, quel lontano giorno di settantacinque anni fa, 719 persone rimasero uccise mentre 1659 furono i feriti (Fonte: G. Rocca, I disperati, pp. 283-284).

Barcollante per le ferite, mio padre cerca di dirigersi da un suo amico che abita nel vicino rione Esquilino per farsi riportare in caserma, sulla canna della bicicletta di quest’ultimo. Incredibilmente, una grossa automobile di lusso lo investe al fianco: è la vettura di Papa Pio XII, giunto a San Lorenzo per benedire vittime e superstiti.

Papa Pio XII benedice vittime e superstiti

E’ poi, ricoverato in ospedale. La grande corsia del Celio è piena di feriti. Da alcune carte impolverate, conservate in cantina e che ho “riesumate” per ricostruire gli eventi, emerge una dichiarazione del 21 luglio 1943, del Capitano medico della sala medica del Ministero della produzione bellica, la quale recita: “Il sergente di sanità Bardanzellu Claudio, che ha riportato ferite multiple al capo, al viso e alla gamba destra, durante l’incursione nemica, è curato dal sottoscritto”.

E’ conservato anche il foglio di licenza di convalescenza in data 29 luglio ‘43, di giorni venti, per “ferita lacero contusa alla regione frontale e malleolare interna destra”; su tale documento è riportata la dicitura: “Non risulta dai documenti la dipendenza da causa di servizio”, essendosi recato, io padre, a portare soccorso alle vittime, senza l’autorizzazione dei superiori.

Tornato a casa, mio nonno stenta a riconoscerlo, mentre mia nonna conta più di cento fori nella camicia della sua divisa. Dopo la convalescenza, camminando con un bastone, mio padre andò a trovare il suo compagno di sventura, ancora ricoverato nell’attuale Ospedale San Carlo. Terminata la guerra ne avrebbe perso le tracce.

Alcune schegge rimasero nel suo corpo per tutta la vita. Ricordo che un giorno mi fece vedere una lastra della mano, nella quale se ne intravedevano tre. Anche un paio di nei, sulla faccia, erano in realtà schegge a fior di pelle; una se la tolse a metà degli anni ’60. Altre schegge all’altezza dei reni, col tempo, si calcificarono e si confusero con le ossa del bacino. Quella dicitura “non dipendenza da cause di servizio”, tuttavia, gli bloccò il riconoscimento dell’invalidità di guerra sino al 1968.

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